Greta Cerretti

La nostra guerra, di Enrico Brizzi

Le coincidenze non esistono, ne sono sempre più convinta. E i libri ci scelgono quando meno ce lo aspettiamo, nel momento in cui sanno che siamo pronti ad accoglierli.

Ho letto “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” nell’anno di uscita, il 1994, e non mi piacque. Faticavo a comprendere l’entusiasmo dei miei amici, quel continuo incensarlo come l’opera che gli stava cambiando la vita.

Quattro anni fa, in una libreria Libraccio, mi è praticamente caduto addosso “Il matrimonio di mio fratello”: l’ho adorato e divorato. Mi sono perfino appassionata all’alpinismo, desiderosa di scalare montagne fisiche ed emotive.

L’estate scorsa ho riletto “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”: magari ero troppo giovane, allora, mi sono detta. E niente, seppur con meno intensità della prima volta, di nuovo non mi è piaciuto.

Con questa altalena di precedenti, davanti a uno spritz un amico (la cui opinione tengo molto in considerazione) mi consiglia la trilogia ucronica di Brizzi. Una sorta di sfida del fato che decido di accettare. Così, mi ritrovo catapultata in un ipotetico 1942 dove l’Italia, fino a quel momento neutrale, decide infine di schierarsi contro la Germania.  Nella premessa di Brizzi, Mussolini ha scelto di non legare il destino della nostra nazione a quello della Germania, e non è sceso in guerra accanto a Hitler. Semplice, come premessa? Per nulla, in un momento dove il politicamente corretto e l’omologazione dei testi spadroneggia. Così come non è semplice dare una lettura di questo libro senza incappare in numerosi fossi. Buche. Voragini.

 

Nell’ Italia immaginaria di Brizzi vive la propria adolescenza Lorenzo Pellegrini, il dodicenne protagonista. Con la guerra alle porte, convinti di rimanere intoccabili, i Pellegrini se ne vanno al mare in Romagna, tra spiaggia e pattino, scherzi da prete, rivelazioni e tradimenti. Poi, quando Bologna è prossima a essere conquistata, senza pensarci due volte la famiglia si trasferisce a Sansepolcro, dove tra alterne vicende Paride Pellegrini riesce a restare in sella, farsi numerose amanti, diventare Podestà e non perdere la convinzione di essere nel giusto in qualsiasi situazione. E qui emerge il primo aspetto peculiare del romanzo, capace di far impazzire qualsiasi algoritmo: la società descritta è maschilista ai limiti del sopportabile, Paride Pellegrini è un puttaniere inveterato senza speranza, il punto di vista femminile è rappresentato egregiamente soltanto da Nina, la “mamma” di Lorenzo, ma schiacciato in un angolo e ben lontano da qualsiasi odore di “girl power“. Impagabile dal punto di vista tecnico, perché incarna perfettamente quanto schematizzato da Robert McKee: “Se vuoi veicolare il concetto di pace, non ripetere all’infinito la pace è bella, la pace è giusta, la pace è bella, la pace è giusta… perché al lettore verrà voglia di prendere una pistola!”. E infatti Brizzi non cade in questo errore. Ci mostra ragazzini interessati a due sole cose: il sesso e la guerra; ci mostra uomini infantili intenti a spupazzare qualsiasi individuo femminile nei paraggi, con il beneplacito della cultura dominante e pure delle donne di casa; ci mostra l’Italietta delle meschinità, del guadagno sulla pelle degli altri, la guerra civile fatta con coloro i quali fino a un minuto prima si è diviso il pane. Ci mostra la miseria delle emozioni, la povertà d’animo, la piccineria che non conosce colore politico.

A quello che è senza dubbio un romanzo di formazione, la narrazione di Brizzi alterna le vicende dell’Italia, dalla neutralità all’ingresso in guerra, passando per la caduta dei Savoia e di “sciaboletta”.  Il lettore si trova immerso in dettagliate descrizioni di riunioni strategiche tra Mussolini, Chrchill, “Roosveltaccio” e il suo cagnolino; telefonate del Führer a Himmler; parate trionfali lungo i viali di città littorie mai costruite. Ed ecco apparire la seconda nota di tecnica narrativa che mi ha colpita: Brizzi si prende il suo tempo. Tutto il tempo che vuole, in perfetta controtendenza rispetto all’attuale narrativa. Come in “Il matrimonio di mio fratello”, non risparmia al lettore dettagli e descrizioni minuziose (lì della scalata, qui degli schieramenti bellici). Con la perizia del romanzo storico, si rivela un anti-Čechov e se ne infischia dell’assioma secondo cui “Se in scena c’è una pistola, deve sparare“. Ai fini della narrazione, è del tutto ininfluente di quanti soldati sia composta questa o quella divisione, dove si trovi la prima linea o dove attaccheranno i tedeschi. Eppure, non omette alcun dettaglio, trasformando l’Italia in una novella Terra di Mezzo. Il risultato è una sublime ambientazione, un totale inabissarsi del lettore in quegli anni e in quei momenti: al termine della lettura, si ha la netta impressione di esser stati proprio lì, tra le pagine del “diario di guerra” di Lorenzo.

 

Potrei andare avanti: il personaggio di Ardus, con le sue ridicole fanfaluche; il capomanipolo Furiani, con il suo sacrificio d’amore; il Ras Diamanti e figlio, incarnazione dell’ottusa e boriosa crudeltà; in generale, il fitto intrecciarsi delle vicende di personaggi realmente esistiti con personaggi immaginari, come l’incontro tra Paride Pellegrini e Benito Mussolini sull’Adriatico o con Italo Balbo.

Concludendo, posso affermare che la prosa di Brizzi mi conquista sulla lunga distanza, con l’elevato numero di pagine e di dettagli: in questo modo i suoi personaggi prendono vita, diventando persone reali con i loro pregi e i loro difetti. E quindi non vedo l’ora di affondare i detti nel secondo libro della trilogia: “L’inaspettata piega degli eventi”.

Articolo di Greta Cerretti

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